venerdì 13 luglio 2007

La Macchina Mondiale n° 1

SOMMARIO:

Abu Ghraib e Guantanamo.
A sessant'anni dal termine della catastrofe nazista riaffiora l'universo concentrazionario.
di Emiliano Alessandroni

Il terroriemo statunitense contro Cuba.
di Leonardo Pegoraro

Antonio Gramsci .
Per un marxismo non travolto dall'utopia
di Emiliano Alessandroni













Abu Ghraib e Guantanamo.
A sessant'anni dal termine della catastrofe nazista riaffiora l'universo concentrazionario.


"Un periodo come quello hitleriano potrà essere
considerato nella propria memoria come finito
e chiuso soltanto quando sarà radicalmente
superato l'atteggiamento intellettuale e morale che
lo animò, che gli diede movimento,direzione e forma."

(György Lukàcs)


Siamo nel 1924, Hitler esprime in questi termini quello che sarà il preludio di un disfacimento senza precedenti: «poiché i tedeschi eccellono su tutte le razze, essi hanno il dovere e il diritto di guidare il mondo».1 Oggi, a tre quarti di secolo di distanza, in un mutato assetto mondiale che vede gli USA prevalere sulla scena storica, le affermazioni di Bush non si distinguono poi tanto da quelle del dittatore nazista: «la nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo».2
E tuttavia non vi sarebbe motivo di agitarsi tanto se l'analogia tra i due imperi si esaurisse solamente nelle parole.
Purtroppo non è così: attualmente gli Stati Uniti si sono arrogati il diritto di misurare il grado di democrazia di tutti gli stati del pianeta erigendosi a giudice universale delle malefatte mondiali.
Ciononostante un quesito s'impone: chi giudicherà le loro?
Indossando la veste del giudice ingiudicabile e inseguendo i propri interessi economico-politici gli USA costituiscono una perenne minaccia pronta «in nome della prevenzione...a mettere a ferro e fuoco il pianeta»,3 facendo altresì ricorso senza scrupolo alcuno all'universo concentrazionario.
Guantanamo, la base navale americana a Cuba nella quale vengono rinchiusi «680 dannati senza volto, costretti in catene ad una segregazione senza termine»3, ne è un esempio calzante. Vediamo di che cosa si tratta.
Se sulla soglia d'ingresso dei lager nazisti campeggiava la scritta "il lavoro rende liberi" all'entrata di Guantanamo vi si può leggere "Camp Delta - Onore in difesa della libertà", ma come avveniva per i campi di concentramento tedeschi, così, anche a Guantanamo, è solo l'orrore che attende dietro il sipario.
Le celle, o unità di detenzione, misurano all'incirca un metro per un metro e mezzo ciascuna e sono costruite in acciaio. Sale d'interrogatorio del tutto «prive d'aria» e «di luce...perché il prigioniero non distingua il giorno dalla notte, non sappia se è rimasto seduto di fronte ai suoi interlocutori per una, due, tre o nove ore, come pure accade».5
I novanta minuti d'aria alla settimana che vengono concessi per impedire l'atrofizzazione dei muscoli vanno rigorosamente consumati indossando il cosiddetto «"tre pezzi", guinzaglio per umani»: «una cintura di cuoio, stretta in vita da robusti anelli cui vengono agganciati due metri di catena che tengono insieme caviglie e polsi».6
A causa della disperazione in cui sono immersi costantemente i detenuti, frequenti sono anche i tentativi di suicidio; ma l'unico metodo che hanno a disposizione per farla finita, che è quello di impiccarsi al centro della propria gabbia, si rivela essere ogni volta fallimentare: la cella è talmente stretta che le contrazioni del corpo penzolante battono ripetutamente sulle pareti richiamando così l'attenzione dei secondini. Nessun tentativo di suicidio ha raggiunto il suo scopo, almeno fino al 2006 quando, malgrado tutto, tre detenuti riescono a togliersi la vita ottenendo dall'amministrazione americana una risposta che dipingeva il loro gesto come narcisistico e volto semplicemente ad attirare l'attenzione.
Ma l'orrore come si sa, non ha sentimenti e non risparmia nessuno: «nell'aprile del 2003, uno scuola bus ha trascinato in catene quattro fantasmi arancioni dalla faccia di bambino fuori dal sarcofago di Camp Delta. Quattro ragazzi sotto i sedici anni».7
È inutile parlare di convenzioni di Ginevra o di Convenzioni internazionali dei diritti dei minori: la potenza economica e politica di cui dispongono gli USA è tale da garantirgli l'assoluta impunità.
Ma ascoltiamo le testimonianze dirette: sull'onda delle continue «torture fisiche, sessuali» e «mentali»8 che vengono perpetrate nei confronti dei detenuti, il padre di uno degli internati che è riuscito in qualche modo a ricevere delle notizie, racconta che il proprio figlio Moazzam «non vede la luce del sole da anni. Sta perdendo la vista» che «i torturatori ora gli applicano quotidianamente delle gocce al naso e alle orecchie, interventi che sarebbero finalizzati alla modificazione comportamentale. Sta rapidamente perdendo anche l'udito [...] Durante gli interrogatori, anche per 100 ore di seguito, ogni tipo di tecnica di tortura è stata applicata» tra cui anche «lo strappo delle unghie».
Ma purtroppo la storia delle sevizie subite da Moazzam non inizia da Guantanamo, bensì da Kandahar, dove «i comandanti americani ... lo legarono a terra con catene alle mani e ai piedi. Lo denudarono. Per due ore, a turno, ... facevano a gara per urinargli addosso. Lo hanno obbligato a rimanere per giorni nell'urina, legato a terra. Lo picchiavano, lo prendevano a calci colpendolo ovunque nel corpo, senza risparmiare una sola parte. Veniva ripetutamente insultato e trattato come un animale».8
Ultimamente, 200 dei detenuti di Guantanamo, rinchiusi senza processo, possibilità di difesa e senza poter comunicare nè con gli altri carcerati nè con i propri famigliari, impossibilitati persino di togliersi la vita, hanno tentato uno sciopero della fame. La risposta dei carcerieri è stata «un tipo particolare di alimentazione forzata: legati mani e piedi ai loro letti 24 ore su 24 per impedire che rimuovano il tubo che gli è stato infilato nell'esofago per assicurargli il nutrimento».9
Ma con quale accusa i detenuti vengono rinchiusi in queste vere e proprie prigioni dell'orrore? Dal momento che non possiedono il diritto di un regolare processo, il semplice sospetto di convivenza con il terrorismo è sufficiente per annientare una volta per sempre l'esistenza a questi poveri sventurati. La prassi è: prima arrestare, poi verificare bene tramite torture, dopo di che in casi di accertata innocenza, forse, rilasciare. É esattamente ciò che è avvenuto a Sayed Abassin, di 28 anni, «rimasto segregato nelle celle dell'esercito americano per oltre un anno» prima della certezza sulla sua effettiva innocenza:

Era l'aprile del 2002. Facevo il tassista e stavo facendo la mia corsa lungo la strada tra Kabul e Khost. A Gardez vengo fermato a un posto di blocco della milizia locale che mi fa scendere dalla macchina insieme ai passeggeri che trasporto. A questo punto, mi viene detto che uno di loro è il cugino di un signore della guerra locale. Provo a spiegare che sono solo un tassista. Che normalmente non chiedo il nome di chi sale sul mio taxi. Ma non c'è nulla da fare. Mi ritrovo alla stazione di polizia di Gardez, dove vengo prima picchiato e quindi consegnato a una pattuglia dell'esercito americano. Due rapide domande e sono su un elicottero verso la base di Bagram [...] Nella base di Bagram ho trascorso la prima settimana in manette e con le caviglie incatenate. Ero in una stanza illuminata ventiquattr'ore al giorno e ogni volta che per lo sfinimento prendevo sonno venivo svegliato dalle urla delle guardie. Sono stato interrogato sei o sette volte. Il cibo era poco e non avevo il permesso di parlare con nessuno. Tanto più con chi divideva la prigione con me. Spesso mi costringevano a rimanere inginocchiato e in silenzio per ore... Durante il viaggio [per Kandahar] venni incappucciato con una busta nera fissata con del nastro adesivo che mi era stato girato intorno al collo. Mi avevano anche messo delle cuffie per non sentire. E una volta a Kandahar le cose peggiorarono ancora. In quella base era vietato guardare negli occhi i soldati americani. Se lo facevi una volta, la punizione era restare inginocchiato con il capo chino per un'ora. Se ci riprovavi, le ore diventavano due....dopo una settimana fui spedito a Guantanamo.10


Accanto a Guantanamo dunque, si sono registrati come luoghi di tortura anche le prigioni di Bagram e Kandahar in Afghanistan. Ma non possiamo dimenticarci dell'Iraq, la terra dove gli USA si sono diretti per esportare la democrazia riuscendo tuttavia, per iniziare, ad esportare solamente il proprio sadismo.
Ad Abu Ghraib si è passati nei confronti del nemico da una despecificazione politica ad una despecificazione naturalistica o etnico-raziale: dal sospetto di terrorismo di Guantanamo che tentava di dare una sorta di giustificazione razionale dell'orrore, si passa ad Abu Ghraib ad una reclusione dei detenuti motivata dal solo fatto di essere iracheni. La convivenza o meno con il terrorismo o con la resistenza diviene in questo caso un fattore del tutto ininfluente: «il generale Karpinski, particolarmente amareggiato per essere stata l'unica ad essere criticata per lo scandalo delle torture», ha infatti sostenuto che «l'allora numero due dell'esercito in Iraq, gen. Walter Wodjakowski, nell'estate del 2003 le avrebbe ingiunto di non rilasciare più alcun prigioniero anche se sicura della sua innocenza: "Non mi importa se teniamo dentro 15.000 civili innocenti - le avrebbe detto il suo superiore - Noi stiamo vincendo la guerra».11
Viene chiaramente fuori da queste dichiarazioni lo strapotere americano e l'assoluta impunità di cui dispone. Tale strapotere permette agli USA di fatto, di individuare un paese ricco di risorse e di petrolio situato in un'allettante zona geografica, di invaderlo militarmente annunciando l'esportazione della democrazia e sequestrare, torturare e uccidere fino a "15.000 civili innocenti" e ricevere come ricompensa il controllo politico di un intera nazione mediorientale. D'altro canto le stesse torture praticate ad Abu Ghraib venivano considerate talmente ovvie e pacifiche per gli americani da indurre i soldati a scattarsi reciprocamente le foto con i telefonini per inviarle ai propri famigliari. É in questo modo che sono emersi alla luce gli abusi di potere e le violenze che gli Stati Uniti perpetrano da decenni a danno dei prigionieri di guerra e che Amnesty International aveva già denunciate da tempo senza alcun'ascolto.
Di quelle foto abbiamo anche delle testimonianze dirette di Haj Ali al-quysi, l'uomo incappucciato dietro al quale ridevano divertiti i suoi aguzzini. Egli ha raccontato il terrore di Abu Ghraib:

...gli liberarono una mano dalle manette. "Ti sto mettendo nella posizione della croce", disse l'uomo che lo interrogava. Ora le percosse si erano fatte continue, così come i getti d'acqua sporca che gli venivano tirati addosso. Gli puntarono anche un fucile contro i genitali ... subì questo trattamento per tre giorni. Gli fecero cambiare più posizioni, lo fecero stare in piedi sulle punte. Gli dissero che la sua mano sarebbe "marcita"...
"Durante l'intero periodo sentii urla, urla di donne, urla di bambini. Chiunque passava nell'atrio mi percuoteva"... lo portarono in una cella e lo ammanettarono alla sbarra. "Era il quinto giorno che non mangiavo" ... "Fui messo nella cella numero 49. Mi scattarono una foto prima di sfilare il cappuccio, poi scattarono un'altra foto. Guardai nelle celle di fronte alla mia ... Tutti i prigionieri erano spogliati. Non ti preoccupare - dissero quei poveracci - siamo così da tre mesi" ... "Ognuno di noi aveva ricevuto dagli americani un soprannome ... uno di essi era Big Chicken, un altro Dracula; c'era l'uomo lupo, Jocker, Gilligan. Io venivo chiamato Colin Powell".
Il giorno successivo arrivò lo specialista Charles Graner ... Haj Ali aveva una benda sulla mano per coprire una ferita, il sangue era mezzo coagulato. Lui prese la benda e la strappò via, insieme alla carne. Haj Ali cadde svenuto. "Il giorno dopo chiesi a una delle donne un antidolorifico. Lei mi disse di sporgere la mano fuori facendola passare sotto la porta. Pensavo che volesse vedere la mano, ma lei ci salì sopra e disse: "Ecco l'antidolorifico americano"....
"Quando volevano mandare cibo alle prigioniere, ci spedivano degli uomini nudi". Le prigioniere erano ostaggi per fratelli, padri o figli. "Le sentivamo urlare"...
Un suo amico chiese a una donna soldato: "Perchè ci umiliate?". Lei rispose: "Questi sono gli ordini, umiliarvi in questa posizione".
Successivamente lo portarono nella stanza degli interrogatori ... In questa stanza accadde l'episodio che poi è stato visto in tutto il mondo come esemplare delle torture praticate dal regime americano. "Mi fecero salire su uno scatolone con un cappuccio sulla testa e le braccia allargate. Mi dissero che mi avrebbero sottoposto a scosse elettriche. Io non gli credetti. Allora presero due cavi e li infilarono nel mio corpo. Ebbi la sensazione che gli occhi mi schizzassero fuori dalle orbite. Poi caddi a terra"... "Di solito i dottori prendevano parte alle torture. Stabilivano se i prigionieri fingevano o esageravano nel denunciare il dolore e invitavano i torturatori ad andare avanti"... lo sottoposero a scosse elettriche cinque volte. Lo legarono mani e testa ad un tubo sul soffitto, gli misero in bocca del pane secco ...
"Una delle cose che ho visto" dice Ali, "è l'imam della più grande moschea di Fallujah. Lui ha 75 anni. Non si sono accontentati di trascinarlo nudo, ma gli hanno fatto anche indossare della biancheria intima femminile. Un'altra storia è questa: ordinarono a un prigioniero di urinare con un sacco in testa. Quando glielo tolsero videro suo padre sotto, e loro fotografarono questa scena".12


Ma come si difende il governo americano di fronte alle accuse su Guantanamo in cui i prigionieri oltre che torturati vengono altresì picchiati, sbattuti «contro i muri» e costantemente minacciati di «esecuzione sommaria»13 e su Abu Ghraib dove corpi nudi e stremati appesi al soffitto vengono interrogati a forza di scariche elettriche maltrattamenti e umiliazioni? Nel primo caso Washington respinge l'accusa definendola un'insinuazione «ridicola».14 Nel secondo caso dove le foto circolate su Internet sono del tutto inequivocabili si risponde cascando dalle nuvole come se non si sapesse niente, esprimendo nella più piena ipocrisia «profondo disgusto».15
In effetti se su una cosa non vi sono dubbi è che il governo americano non solo era a conoscenza delle torture perpetrate nei confronti dei detenuti, ma esortava, addestrava, e finanziava l'impresa: Cofer Black, ex capo della divisione antiterrorismo della Cia confessa su Newsweek: «"A un certo punto l'amministrazione Bush ha fatto sapere formalmente alla Cia che avrebbe avuto mano libera per l'uso di qualsiasi tecnica di tortura che non portasse alla morte o all'invalidità permanente del prigioniero". Una fonte governativa conferma quindi al settimanale che "la tortura leggera rappresenta uno strumento da usare con misura ma indispensabile nella lotta contro il terrorismo organizzato". Tortura leggera, come mettere in testa al prigioniero un cappuccio sporco d'escrementi e lasciarlo in ginocchio, nudo in una stanza gelida, senza acqua né cibo, per qualche giorno di fila. È solo un esempio perché gli americani in questo campo si sono rivelati estremamente creativi ... Time pubblica i documenti relativi alla morte di Manadel al-Jamadi, un iracheno arrestato la notte del 4 novembre 2003 nel suo appartamento a Bagdad. Il prigioniero arriva al carcere di Abu Ghraib con il volto tumefatto e sei costole incrinate. Viene trascinato sotto una doccia, appeso a una sbarra, le mani legate dietro la schiena, un sacchetto di plastica in testa. "Il sangue gli scorreva fuori dal naso come l'acqua da un rubinetto lasciato aperto". In queste condizioni la Cia inizia a interrogarlo. Va avanti per circa 90 minuti, poi il cuore cessa di battere».16
Ma come abbiamo detto, Amnesty International erano anni che aveva già denunciato le torture degli americani nelle varie guerre, torture di cui il governo era pienamente a conoscenza e che incoraggiava. Come che sia, sono infatti stati rinvenuti dei veri e propri «manuali» delle torture che gli Stati Uniti hanno rispettivamente impiegato nelle operazioni in Honduras («lo Human Resource Exploitation Training Manual - 1983») e nella guerra in Vietnam («il Kubark Counterintelligence Interrogation - 1963»); «le analogie con le tecniche impiegate ad Abu Ghraib sono impressionanti». Se ne ricava da quanto detto come «ciò che è emerso in Iraq non è dunque frutto di una deviazione dalle norme ad opera di pochi militari indegni, ma di un metodo scientificamente studiato cui vengono addestrati i militari».17
E tuttavia, per concludere, è bene precisare che l'universo concentrazionario non è l'unico modo in cui si esprime la tracotanza nordamericana. Certo, vero è che Abu Ghraib e Guantanamo rappresentano i casi emersi alla luce del giorno e che la serafica tranquillità con cui i torturatori sono arrivati finanche a scattarsi le foto e a spedirle ai propri famigliari lascia intendere che tale pratica era ritenuta un'azione di routine e che con tutta probabilità molti altri saranno i luoghi in cui si è fatto uso di torture sui detenuti (oggi stanno emergendo ad esempio dei casi riguardanti la guerra in Kossovo), cionondimeno non dobbiamo dimenticarci che già prima dell'ultima invasione militare l'embargo economico che l'Iraq subiva da anni per mano degli Stati Uniti è costato oltre 1.000.000 di morti tra la sua popolazione. Tale nuovo e caratteristico espediente bellico di cui fanno uso e abuso gli Stati Uniti nei confronti dei "paesi canaglia" è stato definito dalla parlamentare dei DS Fulvia Bandoli "l'arma più spietata e crudele che si possa puntare contro un paese". Credo sia doveroso a questo punto, come hanno fatto alcuni storici, porci un interrogativo: «ma siamo sicuri ... che l'embargo non sia una forma post-moderna di campo di concentramento? Che in realtà non ci sia più bisogno di chiudere un intero popolo in un campo di concentramento, ma che basti tagliare l'afflusso di viveri, di medicinali, soprattutto poi se una guerra ha distrutto le infrastrutture civili di questo paese?».18
Occorre dunque cercare di prendere congedo dall'assorbimento passivo dell'ideologia dominante e di chi possiede il controllo multimediale, smascherando di volta in volta l'irrazionale soprattutto laddove esso viene presentato sotto la veste della razionalità.

Emiliano Alessandroni

1 Adolf Hitler: "Mein Kampf", Bompiani
2 da Domenico Losurdo: "La dottrina Bush e l'imperialismo planetario" su "l'ernesto" n. 6 del 2002
3 Ivi.
4 Carlo Bonini: "Guantanamo", Einaudi 2004, p. 2
5 Carlo Bonini: "Guantanamo", Einaudi 2004, p. 25
6 Carlo Bonini: "Guantanamo", Einaudi 2004, p. 30
7 Carlo Bonini: "Guantanamo", Einaudi 2004, p. 61
8 Patricia Lombroso: "I torturatori di mio figlio Moazzam" Intervista da "Il manifesto" del 17/9/2004
9 Mi. Co. "All'inferno Guantanamo" da "Il manifesto" del 8/10/2005
10 Carlo Bonini: "Guantanamo", Einaudi 2004, pp. 74-75
11 da Stefano Chiarini: "Anche i bambini ad Abu Ghraib" su "Il manifesto" del 12/3/2005
12 Lars Akerhaung: "Torturatelo ancora, disse il medico Usa" da "il manifesto" del 10/9/2005
13 Vittorio Zucconi: "Così la CIA tortura i prigionieri" da "La Repubblica del 27/12/2002
14 Goffredo Buccini:"Due prigionieri afghani morti a Guantanamo" da Il Corriere della Sera del 6/3/2003
15 Da "La Repubblica" del 9 maggio 2004
16 Roberto Rezzo: "Torture incoraggiate dalla Casa Bianca" da "l'Unità" del 14/11/2005
17 Manilo Dinucci: "Ecco i manuali dei torturatori Usa", da "Il manifesto"del 12/05/2005
18 Domenico Losurdo: "Perchè è fallito il comunismo" da "Il Grillo" (9/11/1999)



Il terrorismo statunitense contro CUBA

Nel settembre del 1998 i cubani René González, Fernando González, Gerardo Hernández, Ramón Labañino e Antonio Guerrero furono arrestati a Miami, città del sud della Florida distante solamente poco più di novanta miglia da Cuba, l’isola della Revoluciòn.
I Cinque sono stati condannati in primo grado a pene detentive durissime di cui addirittura tre ergastoli e in attesa del primo processo hanno dovuto sopportare per mesi e mesi la barbara segregazione nel famigerato el hueco, il buco, la prigione di due metri per due illuminata giorno e notte. Il processo si è poi tenuto nel 2003 e altro non si è rivelato che un’eclatante farsa giudiziaria denunciata, tra gli altri, dalla National Association of Democratic Lawyers (ha rappresentanti in quasi cento paesi), dal National Jury Project e dal National Lawyers Guild, e condannata da trentun membri del Parlamento inglese. Finché il 9 agosto 2005, dopo sette anni di immotivata tortura e detenzione, la Corte d’appello federale di Atlanta ha revocato la sentenza enumerando gravi irregolarità come le omissioni riguardanti i diritti degli imputati e la valutazione delle prove da loro addotte e riconoscendo l’evidente pregiudizio che ha viziato l’intero processo.
Ciononostante la loro odissea non è finita. Ora dovranno affrontare un nuovo processo e nell’attesa non verranno nemmeno liberati.
Perché sono stati arrestati e condannati a queste pene inaudite? A tale domanda gran parte dei media non ha risposto in maniera sincera e soddisfacente, rivelandosi sempre più ridicoli e corrotti. Basti pensare che lo stesso New York Times ha eluso la storia dei Cinque, finché, per renderla pubblica, alcuni componenti di un comitato di solidarietà internazionale (composto fra gli altri dal Nobel per la Pace Rigoberta Menchù) hanno dovuto pagare 60.000 dollari una pagina del giornale. In Italia, ad esempio, il Corriere della Sera non le ha dedicato una sola riga e la Repubblica l’ha data in una “breve” senza peraltro menzionare il motivo per cui quei cubani si trovavano in Florida.
Le autorità giudiziarie della Florida li hanno accusati di violazione delle leggi federali e in particolare di aver svolto attività di spionaggio trasmettendo a Cuba informazioni relative alla difesa nazionale degli Stati Uniti, le quali avrebbero fatto correre gravi rischi al paese e alla sua popolazione. Lo stesso ministro della Giustizia degli Stati Uniti ha affermato che i reati attribuiti agli imputati costituiscono un tentativo di “colpire al cuore la sicurezza nazionale e la democrazia degli Stati Uniti d’America”.
Ma i Cinque, al processo, non hanno negato le proprie attività volte invece a contrastare il terrorismo che da decenni colpisce la Repubblica di Cuba, conferendole un triste primato: è il paese che ha subito la più lunga campagna terroristica della storia. La loro missione era quella di allarmare il proprio paese, costantemente vittima degli attentati terroristici messi in atto dagli esuli cubani controrivoluzionari ospitati, spalleggiati e finanziati dagli Stati Uniti. Avevano cioè il compito di informare in tempo il governo dell’Avana sugli imminenti attentati provenienti da Miami (il nido dei terroristi) allo scopo di evitare danni all’economia del paese e in primis alla popolazione che ha già visto morire massacrati 3500 cubani. Hanno combattuto contro lo stesso terrorismo (tra l’altro senz’armi e al solo fine di prevenirlo) contro cui combatte il governo di Washington, almeno a parole. Peccato, però, che agissero contro il terrorismo sbagliato, quello “buono”.
Sono numerose le prove che dimostrano il coinvolgimento sia indiretto che diretto degli USA in atti terroristici e operazioni di sabotaggio, volti a mettere in ginocchio Cuba e screditare la Rivoluzione. A seguito dell’invasione alla Baia dei Porci respinta eroicamente dal popolo cubano e del conseguente imbarazzo della democratica amministrazione Kennedy, gli attentati contro l’isola caraibica e il suo popolo, già iniziati nell’ottobre del 1959, si intensificarono. Il paese che aveva sfidato con successo il padrone del mondo intero andava punito. Così negli anni sessanta l’isola caraibica fu teatro di un’infinità di incursioni aeree e marittime contro obbiettivi quali raffinerie, stabilimenti chimici, viadotti ferroviari, campi di canna da zucchero e magazzini. Contemporaneamente vennero infiltrate spie, sabotatori e assassini che trucidarono soldati e cittadini inermi. Il tutto ad opera di commandos fascistoidi addestrati e finanziati dalla CIA, ospitati a Miami. Come se non bastasse si diede avvio ad operazioni ancora più abbiette: l’impiego a più riprese di armi chimiche e biologiche contro Cuba. Ad esempio, nel 1962 funzionari della CIA contaminarono ingenti quantitativi di zucchero e sempre nello stesso anno un agronomo canadese ricevette 5000 dollari da un agente della CIA per inoculare ai tacchini dell’Isola il virus del morbo del Newcastle, una patologia letale che provocò la morte di ottantamila capi. Tra il 1969 e il 1970 la CIA mise a punto un sistema per incidere sulle condizioni meteorologiche e danneggiare l’economia cubana: aerei decollati da un laboratorio situato in pieno deserto californiano sorvolarono l’Isola seminando cristalli nelle nubi cariche d’acqua, che scatenarono rovesci torrenziali sulle zone non coltivate (causando inondazioni devastanti), in modo da lasciare a secco quelle coltivate a canna da zucchero. Nel 1971 la CIA consegnò agli esuli cubani un virus in grado di scatenare la peste suina africana, la quale costrinse ad abbattere mezzo milione di maiali, prima che l’epidemia dilagasse in tutto il paese. Dieci anni più tardi vennero presi di mira gli esseri umani, quando sull’Isola si abbatté un’epidemia di dengue emorragico (malattia trasmessa da zanzare che, dopo l’allevamento in laboratorio, erano state rilasciate nell’ambiente) che causò, nel 1981, la registrazione di oltre 300.000 casi e la morte di 158 cubani, di cui 101 erano di età inferiore ai 15 anni.
Ancor più numerose sono state le azioni dirette a colpire Fidel Castro per eliminarlo o per umiliarlo. Tentativi che spaziavano dall’avvelenamento dei sigari e della cena, a quelli di somministrargli una sostanza chimica che gli facesse cadere barba e capelli, o di fargli assumere LSD subito prima di pronunciare un discorso in pubblico, fino ad arrivare ai sistemi più classici basati sull’impiego di armi da fuoco e ordigni, come quando si cercò di bombardare un palazzetto dello sport in cui stava tenendo un discorso. Ovviamente altri ottimi bersagli erano rappresentati da tutti i restanti componenti del governo socialista come Raúl Castro, fratello del Presidente, e Che Guevara contro cui vennero addirittura sparati colpi di bazooka mentre si trovava nel palazzo delle Nazioni Unite a New York, nel 1964.
Nel 1981 Reagan, che si contraddistinse per la sua politica ultrareazionaria, istituì la Fondazione Nazionale Cubano-Americana (FNCA), creazione del direttore della CIA Casey. Essa era finalizzata a compiere, riguardo a Cuba, un lavoro di manipolazione e pressione di fronte al Congresso e all’opinione pubblica, in modo da servire e tutelare gli interessi imperialisti di Washington. La capacità dell’FNCA di conciliare gli interessi nordamericani e le vecchie élite politiche ed economiche, custodi della dittatura di Batista, le consentì di divenire in breve tempo la principale lobby cubana degli Stati Uniti. Fin dall’inizio la FNCA si incaricò di annientare i tentativi di avvicinamento tra i due paesi avviati dal governo precedente, quello di Carter, l’unico Presidente che cercò di promuovere una politica di distensione tra Washington e l’Avana. La potente Fondazione si caratterizzò presto per il ricorso al terrorismo come strumento di espressione ideologica. Luis Posada Carriles, ex agente della CIA e vecchio militante della rete terroristica latinoamericana, si è vantato in diverse interviste di aver commesso più attentati di tutti contro Cuba, dando prova di essere uno dei più crudeli terroristi del mondo, e nel contempo ha affermato di essere stato commissionato e retribuito dalla FNCA. Se i media occidentali fossero veramente liberi, sarebbe nota a tutti la data del 6 ottobre del 1976 proprio come è nota quella dell’11 settembre 2001. In quel giorno, per la prima volta nella storia, il terrorismo aereo venne utilizzato come mezzo di pressione politica: un aereo della compagnia di bandiera cubana, proveniente dalle Barbados, esplose in volo. Settantatre persone persero la vita, tra cui ventiquattro membri della squadra nazionale di scherma, che aveva appena vinto i Giochi Centroamericani. L’attentato fu rivendicato da Carriles, che, dopo un breve periodo di detenzione in un carcere venezuelano, riuscì ad evadere grazie ai suoi contatti con la CIA, il Dipartimento di stato e la FNCA che gli aveva fornito 26.000 dollari per corrompere le guardie carcerarie.
Gli attentati terroristici degli Stati Uniti si sono protratti fino ai giorni nostri per conto di organizzazioni paramilitati quali Omega 7, Alfa 66, il Movimento Insurrezionale Martiniano, Abdala, i Fratelli per il Riscatto, Potere Cubano, il Movimento Nazionalista Cubano, la Lega Anticomunista Cubana e tanti altri ancora. Queste si sono rese responsabili di attentati che hanno coinvolto non solo cubani, ma anche turisti, allo scopo di indebolire l’economia dell’Isola colpendo una sua fondamentale risorsa economica, come quando nel 1997 una serie di bombe deflagrarono in alcuni centri turistici dell’Avana, uccidendo tra gli altri il giovane italiano Fabio di Celmo.

Cuba è inoltre costretta a sopportare l’illegittimo e pesante embargo che da oltre sessant’anni causa il malcontento tra la popolazione, dovendo far fronte al più alto costo per tonnellata al mondo di import-export. L’embargo, costatole più di 70 miliardi di dollari, è stato condannato dalle Nazioni Unite (da anni ogni volta votano a favore solo Gli USA ed Israele), dall’Unione Europea, dall’Organizzazione degli Stati Americani, dal Comitato Giuridico Interamericano, dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani, dall’Organizzazione Mondiale del Commercio e da tanti altri organismi internazionali.
Nonostante fin dal 1959 l’invasione militare diretta, gli attacchi biologici, gli attentati terroristici, il sabotaggio delle infrastrutture, le ondate di assassinii, la guerra di propaganda, le aggressioni politiche e diplomatiche, lo strangolamento economico abbiano condizionato i ritmi e gli stili di vita della popolazione dell’Isola, costretta a vivere in permanente stato d’assedio, la Repubblica di Cuba ha dimostrato che è possibile ritirarsi dal libero mercato dominato dai capitali delle potenze occidentali e sottrarsi alla legge del profitto grazie alla nazionalizzazione dei beni privati e al conseguente smantellamento della classe dirigente capitalista. Gli introiti dello stato sono stati e sono tutt’ora gestiti dal governo per essere distribuiti presso l’intera popolazione attraverso servizi quali la sanità, l’istruzione, l’informazione, le importazioni di materie prime e alimenti, lo sport…facendo di Cuba un paese che, ripensando alla suddivisione sociale in chiave collettiva ed egualitaria, ha eliminato l’analfabetismo in un anno con il più alto indice di scolarizzazione del continente e il più alto al mondo di insegnanti per numero di abitanti, che ha visto aumentare le prospettive di vita di oltre 15 anni grazie anche al miglior sistema sanitario del mondo totalmente gratuito, che ha dato una casa e un lavoro al suo popolo. Senza contare che l’Isola, con grande spirito di solidarietà, si impegna nella lotta all’AIDS, mettendo i suoi ottimi medici a disposizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e che sostiene da sempre le lotte di liberazione per l’indipendenza di altri popoli, lungi dal rivendicare alcuna proprietà nei loro paesi.
Fidel Castro
A tal proposito, è esemplare il decisivo contributo militare e diplomatico di Cuba ad aprire le porte della libertà nell’Africa australe e, in particolar modo, in Namibia e in Sudafrica, soggiogata dall’apartheid. Come ha ricordato Mandela, “nell’intera storia africana è la prima volta che un popolo di un altro continente si è levato in nostra difesa”. È significativo sapere che a questa missione, che Castro chiamò “la causa più bella“, parteciparono Fernando González, Gerardo Hernandéz e René González (tre dei cinque cubani oggi prigionieri negli USA), i quali, come tutti i loro compagni, erano andati in Africa volontariamente.
Citando lo storico Michael Parenti, “se costretti a scegliere fra una democrazia senza capitalismo, o, un capitalismo senza democrazia, i politici nordamericani prediligono senza esitazioni il secondo, pur preferendo celarsi, ove possibile, dietro una parvenza di legittimità mediante una controllata e ben limitata. Anche nel caso dei Cinque cubani, dovendo scegliere tra l’onestà intellettuale a favore degli accusati e la repressione in difesa degli interessi corporativi statunitensi, si sono subito schierati per la repressione. I nemici della pace e della giustizia non sono all’Avana, ma a Washington.”
Nel XIX secolo, quando lottava contro la tirannia spagnola che imperversava su Cuba, José Matrí, eroe della seconda guerra di indipendenza, scrisse: “la libertà costa cara ed è necessario rassegnarsi a vivere senza o decidersi a comprarla al suo prezzo”.
I cubani hanno scelto la strada della libertà.
Gerardo, Ramón, Antonio, Fernando e René stanno pagando il suo prezzo.


Leonardo Pegoraro



Antonio Gramsci
Per un marxismo non travolto dall'utopia


Emiliano Alessandroni


«Del sognare ad occhi aperti e del fantasticare. Prova di mancanza di carattere e di passività. Si immagina che un fatto sia avvenuto e che il meccanismo della necessità sia stato capovolto. La propria iniziativa è divenuta libera.
Tutto è facile. Si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui presentemente si è privi. È, in fondo, il presente capovolto che si proietta nel futuro. Tutto ciò che è represso si scatena. Occorre invece violentemente attirare l'attenzione nel presente così com'è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà».[1]
Risulta evidente fin da questa prima citazione come fosse presente in Gramsci una tendenza demistificatrice che accompagnerà e caratterizzerà tutta la sua opera carceraria, distinguendola per la sua impeccabile razionalità e il suo lucido realismo. Il termine utopia, che una vasta parte del senso comune oggi associa a quello di comunismo, non solo non viene rivendicato dalla teoria di questo grande pensatore, ma viene bensì utilizzato per smascherare numerose concezioni borghesi che oggi si ergono al rango di dottrine moderne; di più, si potrebbe forse riscrivere l'intero sistema gramsciano sottoforma di conflitto tra realismo e utopia. Ma vediamo meglio. Occorre prendere congedo innanzi tutto da quelle teorie di orientamento conservatore che, per cecità ideologica, come utopia classificano tutto ciò che è trasformazione o volontà di cambiamento. Come che sia è necessario invece ribadire che «l'attributo di utopistico non è proprio della volontà politica in generale, ma delle particolari volontà che non sanno connettere il mezzo al fine e pertanto non sono neanche volontà, ma velleità, sogni, desideri, ecc.»;[2] ma allora, si chiede Gramsci, «non è forse la reazione anch'essa un atto costruttivo di volontà? E non è atto volontario la conservazione? Perché dunque sarebbe [...] rivoluzionaria e non utopistica la volontà di chi vuol conservare l'esistente e impedire il sorgere e l'organizzarsi di forze nuove che turberebbero e capovolgerebbero l'equilibrio tradizionale?».[3] Un esempio storico si chiama in causa da sé: nel corso della Rivoluzione francese vediamo il Terzo Stato in rivolta, che sostenuto dalle teorie illuministe si appresta alla fondazione dello Stato moderno, dare battaglia ad una manciata di aristocratici conservatori aggrappati ormai a nient'altro che ai propri interessi particolaristici e a deboli dottrine obsolete. È doveroso chiedersi a questo punto, chi erano in quel caso gli utopisti, i rivoluzionari o i conservatori? È evidente che utopisti erano allora i conservatori, e la storia successiva è giunta poi a confermarlo: la borghesia francese esce vincitrice dalla Rivoluzione e, seppur tra mille difficoltà, riesce nel giro di un secolo a cancellare ogni sorta di residuo feudale, trovare le forme politiche adeguate ai nuovi rapporti sociali e consolidare il proprio dominio.
Centrale risulta essere in Gramsci, a questo punto, la categoria di "contraddizione oggettiva" o "contraddizione reale" desunta direttamente da Marx e da Hegel. Ogni teoria che prescinde da tali categorie è per Gramsci un'estraniazione dalla realtà effettuale e, dunque, un vagheggiamento utopico. Se in effetti è lo scarto che si viene a produrre tra mezzi e fini a ricoprire di astrattismo una determinata teoria, tale scarto è possibile colmarlo soltanto riconoscendo ed intervenendo all'interno della "contraddizione oggettiva" che esprime la realtà effettuale. La negazione o il disconoscimento della "contraddizione oggettiva", o ancor più la presunzione tronfia e spocchiosa di chi reputa se stesso o la propria teoria al di sopra di tale contraddizione, conduce ad un'inevitabile ricaduta nell'utopia.
In questo senso per Gramsci «la religione è la più gigantesca utopia, cioè la più gigantesca "metafisica", apparsa nella storia, poiché esso è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica: essa afferma, invero, che l'uomo ha la stessa "natura", che esiste l'uomo in generale, in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, "autocoscienza" dell'umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro (-utopico-)».[4]
La peculiarità e superiorità della filosofia della prassi (marxismo) risiede invece per Gramsci proprio nel suo carattere realistico, ovverosia nel fatto che essendo una teoria delle contraddizioni, essa è tenuta a confrontarsi ripetutamente con le contraddizioni reali che si dispiegano via via sul panorama storico. A ciò si aggiunge il carattere di autoriflessività: quel procedimento che Gramsci chiama di applicazione del materialismo storico al materialismo storico stesso. La filosofia della prassi viene a configurarsi in questo modo come quella «filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico» rivelandosi come «la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione».[5]
Come si può vedere dunque, i canoni di realismo e utopia vengono totalmente ribaltati rispetto a quelli della tradizione conservatrice il cui presunto realismo si è spesso rivelato essere vana fantasticheria: durante il periodo della Restaurazione ad esempio «i teorici dell'ancien régime sono ben piazzati per vedere il carattere astratto, antistorico delle ideologie piccolo-borghesi», e tuttavia tale giudizio si arresta alla valutazione dell'altrui senza sfiorare minimamente la sfera personale; avviene in tal modo che essi finiscono per generare «il loro contrario, uno storicismo "popolare" che critica e l'ideologia piccolo-borghese e l'ideologia "aristocratica", spiegando ambedue e spiegando "se stesso" ciò che rappresenta il massimo "storicismo", la liberazione totale di ogni "ideologismo", la reale conquista del mondo storico, cioè l'inizio di una nuova civiltà originale».[6]
La filosofia della prassi nasce dunque per Gramsci proprio come superamento dei vecchi astrattismi ideologici, essa sola è in grado, secondo il pensatore sardo, di generare uno storicismo che sappia dar ragione del giacobinismo, del conservatorismo aristocratico e della propria nascita, di spiegare cioè tutto il passato e il presente per mezzo del proprio sistema. Tale sistema è ciò che ha poi trascinato la storia verso l'abbandono del vecchio per proiettarla in direzione della modernità. L'analisi delle contraddizioni oggettive è insomma il primo presupposto imprescindibile per non cadere nell'utopia. Ipotesi fantastiche o sogni di mondi platonicamente ideali stanno fuori dal sistema di Gramsci; egli s'inserisce lungo la scia di quel Marx che definiva il comunismo non come una società perfetta in cui vivere o come un astratto paese della felicità assoluta, ma molto più concretamente come «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»[7] (corsivo mio).
A tal proposito è necessario per Gramsci «applicare la volontà alla creazione di un nuovo equilibrio di forze realmente esistenti ed operanti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva e potenziandola per farla trionfare» muovendosi sempre «nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e superarla (o contribuire a ciò)».[8]
Dunque per quanto riguarda la questione dei mezzi il pensiero di Gramsci è in stretta continuità con la tradizione marxista che ha alle spalle (Marx, Engels, Lenin, Rosa Luxemburg): ogni raggiungimento di un fine presuppone come mezzo l'intervento pratico e volontario all'interno delle contraddizioni reali. Ma per quanto concerne lo scopo ritroviamo la medesima coincidenza di posizioni? Sappiamo purtroppo che Marx ed Engels hanno avuto una concitata battaglia teorica con Bakunin, il quale non esitava, nel corso degli accesi dibattiti che si creavano, ad accusarli di statolatria. Gli echi di questa "battaglia" e le accuse dell'intellettuale anarchico hanno probabilmente influenzato parte delle teorie di Marx ed Engels e in modo particolare quelle relative alla delineazione della società futura.
Lo stadio dell'umanità che potrà definirsi comunista corrisponderà per Marx a quella fase storica «in cui la presente radice dello Stato [...] sarà perita».[9] Per Engels nella società senza classi che succederà al disfacimento del sistema capitalistico «crollerà inevitabilmente lo Stato. La società che organizzerà nuovamente la produzione sulle basi di un'associazione libera ed egualitaria di produttori, trasferirà tutta la macchina dello Stato là dove sarà l'unico suo posto, da quel momento: nel museo delle antichità, accanto alla rocca e all'ascia di bronzo».[10] Ma tale impronta messianica la troviamo a tratti nei due fondatori del marxismo già in precedenza: Nell'Ideologia Tedesca essi prefigurano il comunismo come una società in cui risulterebbe «possibile fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare ... senza diventare né cacciatore, né pastore né critico».[11]
Alcuni autorevoli critici marxisti di oggi hanno messo in evidenza il carattere messianico di tali posizioni: in effetti, «se accogliamo tale definizione, allora il comunismo presuppone uno sviluppo così prodigioso delle forze produttive da cancellare i problemi e i conflitti relativi alla distribuzione della ricchezza sociale e quindi relativi al lavoro, e alla misurazione e al controllo del lavoro, necessario alla sua produzione; anzi, così configurato, il comunismo sembra presupporre la scomparsa, oltre che dello Stato, della divisione del lavoro, e in realtà dello stesso lavoro, il dileguare, in ultima analisi, di ogni forma di potere e di obbligazione».[12]
Ad assorbire questa componente messianica che pullula negli scritti dei due fondatori del marxismo è anche il primo Lenin: tutto Stato e rivoluzione scritto alla vigilia dell'Ottobre del '17 sembra essere un vero e proprio atto di grazia verso gli anarchici: ad accompagnare come un'ombra l'intera opera è un'anarchica ostilità verso ogni forma di struttura statale. «Con l'abolizione delle classi si compie anche l'abolizione dello Stato»[13] recita il pamphlet del futuro dirigente sovietico; d'altronde se si vede lo Stato esclusivamente come mezzo di organizzazione dell'oppressione di una classe su un'altra senza considerare altresì il carattere assicurativo che esso detiene verso determinati membri nei confronti della stessa classe di appartenenza, ne deriva la logica conclusione che «quando vi sarà la libertà non vi sarà più Stato»,[14] e quindi «la scomparsa dello Stato» dovrà essere «una conseguenza della rivoluzione socialista».[15]
In questo modo anarchici e comunisti rappresenterebbero due movimenti che si propongono lo stesso fine ma con mezzi diversi; il rimprovero che i comunisti muoverebbero agli anarchici sarebbe cioè non «di essere per l'abolizione dello Stato, quanto di pretendere che sia possibile abolire lo Stato "dall'oggi al domani"».[16]
Radicalmente mutata è la posizione del rivoluzionario bolscevico dopo l'impatto con la realtà effettuale. Una volta conclusasi la rivoluzione e avviatosi all'amministrazione del gigantesco paese eurasiatico, Lenin si rende conto che i termini del reale sono ben altra cosa rispetto alle fantasticherie sognatrici generate dal fervore rivoluzionario. E così, lungi dall'indirizzare il paese verso la soppressione dello Stato, spinge il proprio popolo alla costruzione di «uno Stato in cui gli operai mantengano la loro direzione sui contadini, godano della fiducia dei contadini e con la più grande economia eliminino dai rapporti sociali ogni traccia di sperpero», è necessario quindi cercar di gestire il proprio «Stato con la massima economia», facendo sì «che ogni più piccolo risparmio serva a sviluppare» l'industria meccanica, «a sviluppare l'elettrificazione, l'estrazione idraulica della torba, a condurre a termine la centrale elettrica del Volhov ecc.»,[17] è necessario insomma radunare tutte le energie per cercar di «costruire un apparato veramente nuovo che meriti veramente il nome di socialista, di sovietico, ecc.».[18]
La riflessione di Gramsci prende esattamente le mosse dall'ultimo Lenin. Fin dal fior fiore dei primi fermenti giovanili egli afferma a chiare lettere che «il proletariato non è nemico dello Stato in sé e per sé come non era nemica dello Stato in sé e per sé la classe borghese».[19] La battaglia che conducono gli operai sfruttati, «lo Stato che essi combattono è veramente e solamente lo Stato borghese capitalistico, e non già lo Stato in sé», analogamente, «la proprietà che essi vogliono sopprimere non è già la "proprietà", genericamente, ma il modo capitalistico di proprietà».[20]
Gramsci si propone la fondazione di un "ordine nuovo" più spontaneo e concessivo, fondato sul consenso, non sulla coercizione e nato dall'emancipazione delle classi subalterne, che sappia opporsi al disordine anarchico e animalesco generato dall'autoritarismo repressivo dello Stato borghese: in effetti «il mito anti-socialista dello Stato-caserma è diventato una terribile asfissiante realtà borghese, che spinge la società a un abisso di indisciplina, di frenesia, di marasma omicida. Siamo costretti in una camicia di forza che ci fa diventare pazzi ed esasperati».[21]
Nei Quaderni del carcere poi, il nome che Gramsci utilizzerà per designare l'ordine comunista sarà quello di "società regolata" indicando con tale termine una società post-capitalista munita a tutti gli effetti del proprio funzionamento normativo. Tale concetto di "società regolata" dunque «difficilmente può essere» identificato «con l'anarchia. Per comprendere il senso di tale configurazione, bisogna in realtà partire da Hegel che nella società borghese del suo tempo, caratterizzata dalla polarizzazione di ricchezza e povertà, vede un "residuo dello stato di natura", cioè di una condizione fatta di violenza e sopraffazione. Il superamento di tale condizione, da Marx e Engels definita di preistoria dell'umanità, viene da loro individuato nel comunismo che dunque rappresenta l'inizio della storia dell'umanità conciliata. Ma tale ciclo storico qualitativamente nuovo è per Gramsci non l'avvento dell'anarchia, col venire a cadere di ogni norma, bensì di una società che è "regolata" proprio per il fatto che supera lo "stato di natura", l'anarchia e la sopraffazione propri di una società fondata sul dominio di classe. I Quaderni del carcere sembrano riconoscere il debito nei confronti di Hegel allorché fanno risalire "quest'immagine di Stato senza Stato" ovvero di "Stato etico", il quale ha preso il posto dello Stato come organizzatore della violenza di classe, e in cui consiste il comunismo, "ai maggiori scienziati della politica e del diritto" … e anche esplicitamente a Hegel …Il comunismo viene visto allora come la realizzazione di quella "immagine" che nell'autore della Filosofia del diritto rimane al livello della "pura utopia", dato che prescinde dai colossali sconvolgimenti materiali che soli possono conferirle concretezza».[22]
Gramsci sembra dunque essere l'autore che «più si è impegnato nello sforzo di de-messianizzazione del progetto comunista»; oltre a mettere in discussione «il mito dell'estinzione dello Stato e del suo riassorbimento nella società civile» facendo notare «che la stessa società civile è una forma di Stato», egli ha a più riprese «sottolineato che l'internazionalismo non ha nulla a che fare col misconoscimento delle peculiarità e identità nazionali, le quali continueranno a sussistere ben oltre il crollo del capitalismo; quanto poi al mercato, Gramsci ritiene che converrebbe parlare di "mercato
determinato" piuttosto che di mercato in astratto».[23]
Dunque la "società regolata" lungi dal configurarsi come un'utopia antistorica, si delinea in Gramsci come il vero e proprio compimento della modernità.
Tale compimento della modernità può giungere solo ed esclusivamente se si catalizzano tutte le forze che esprimono la contraddizione capitalistica, coordinandole in direzione del superamento della contraddizione.
Ci si accorge infatti che i numerosi movimenti critici che abbiamo oggi nel nostro panorama storico quali Legambiente, Greenpeace, WWF, Amnesty International, Emergency, gli animalisti, i Medici senza frontiere, i frati comboniani, i movimenti antiglobalizzazione, le Donne in Nero, i movimenti per la pace, i promotori del commercio equo-solidale, ecc. ecc., sono tutti espressioni delle contraddizioni che il sistema capitalistico reca con sé, non appena alziamo lo sguardo dai singoli alberi per posarlo sulla foresta. E tuttavia l'intento di ciascuno di tali movimenti è destinato a rimanere astratta utopia se: 1) tali movimenti non si accorgono della relazione che esiste tra il problema di cui si occupano e il sistema o la logica sistemica che lo produce; 2) non si unisce la lotta per la risoluzione del problema di cui ci si occupa con la lotta per il superamento del sistema che tale problema ha generato; 3) non si conduce tale lotta muovendosi all'interno della contraddizione e cioè sostenendo e spalleggiando quei soggetti collettivi che più rappresentano tale contraddizione e che, per necessità di condizione e maturazione di coscienza, sono disposti a tutto pur di superarla.
Importante è precisare che la concretezza non ha superato d'un passo l'utopia qualora tali soggetti non abbiano ancora raggiunto la maturità di coscienza desiderata. Ci si troverebbe infatti in questo caso a sostenere soggetti embrionali di una lotta presente solo nella propria testa (utopia) e priva di riscontri reali ed efficaci, e a forza di correr dietro a questi si finirebbe per esser risucchiati dal populismo emanato dalla fase primitiva ed elementare che contraddistingue l'inconsapevole soggiogamento consensuale del momento "economico-corporativo".[24] Lungi da ciò, in tale situazione, rimane ancora necessario battagliare culturalmente e con i mezzi che le condizioni oggettive mettono a disposizione per creare volontà collettive rivoluzionarie e raggiungere tale maturità di coscienza. È ciò che in certo qual modo Gramsci intendeva con "egemonia culturale". Solo in questo modo è possibile conferire una spinta concreta e progressiva al cammino della storia.



Bibliografia:

- Friedrich Engels: L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, G. Savelli 1975
- Antonio Gramsci: Quaderni del carcere, Einaudi 2001
- Antonio Gramsci: L'Ordine Nuovo, Einaudi 1955
- Lenin: Opere scelte, Editori Riuniti 1968
- Domenico Losurdo: Antonio Gramsci dal liberalismo al "comunismo critico" Gamberetti 1997
- Domenico Losurdo: Fuga dalla storia? La città del Sole 2005
- Karl Marx: Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti 1976
- Karl Marx- Friedrich Engels: Lideologia tedesca, Editori Riuniti 1971



[1] Gramsci, 2001, p. 1131
[2] Gramsci, 2001, p. 762
[3] Gramsci, 2001, pp. 761-762
[4] Gramsci, 2001, p. 1488
[5] Gramsci, 2001, p. 1487
[6] Gramsci, 2001, p. 443
[7] Marx: L'ideologia tedesca
[8] Gramsci, 2001, p. 1578
[9] Marx, 1976, p. 43
[10] Engels, 1975, p. 216
[11] Marx-Engels, 1955, p.
[12] Losurdo, 2005, p. 48
[13] Lenin, 1968, p. 896
[14] Lenin, 1968, p. 925
[15] Lenin, 1968, p. 899
[16] Lenin, 1968, p. 896
[17] Lenin: Meglio meno ma meglio, in Lenin, 1968, p. 1827
[18] Lenin, Ivi, p. 1816
[19] Gramsci, 1955, p. 398
[20] Gramsci, 1955, p. 399
[21] Gramsci, 1955, p. 3
[22] Losurdo, 1997, pp. 192-193
[23] Losurdo, 2005, p. 102
[24] cfr Gramsci, 2001, p. 457